“Per me sarebbe un giorno divino / se l’Isolotto dipingessi per primo”. Scriveva così Vincenzo Riso, un “vicchiareddu piscaturi isolano“, in una delle poesie dedicate alla sua terra e composte durante gli anni trascorsi in Venenzuela, dove era emigrato nell’immediato dopoguerra. Lontano dal paese natio, dove sarebbe ritornato solo nel 1986, espresse nei suoi versi i sentimenti per la propria origine isolana e l’amore per il mare.
Ci è sembrato quasi naturale accostare questi versi alla bellissima foto che ci ha inviato l’amico Antonio Vassallo da Capaci, dopo i due giorni trascorsi insieme nella bellissima terra siciliana, e raccontarvi un po’ della rara bellezza di questo posto. L’isolotto di Isola delle Femmine, che ha dato il nome al paese che si trova davanti, è una porzione di terra baciata dal sole e adagiata sul mare. Il nome è curiosamente affascinante e nella letteratura si rincorrono diverse leggende sulle origini e sul significato.
La spiegazione più nota trova riferimenti nella stessa torre che fiera si erge sull’isolotto e che, secondo quanto si legge, un tempo doveva essere una prigione per sole donne, anche se gli esperti non hanno trovato resti di vita carceraria.
Una leggenda storica molto conosciuta narra che tredici fanciulle turche, essendosi macchiate di gravi colpe, furono imbarcate dai loro parenti su una nave senza nocchiero e furono lasciate alla deriva. In balia dei venti e delle onde vagarono per giorni in mare fino a quando una violenta tempesta scaraventò l’imbarcazione su un isolotto nella baia di Carini, dove le donne vissero da sole per sette lunghi anni. I congiunti, pentitisi della punizione così forte, riuscirono a ritrovarle dopo molte ricerche e decisero di stabilirsi sulla terraferma. Secondo la fantasia popolare, fondarono una cittadina alla quale diedero il nome “Capaci“, in ricordo della pace fatta (Cca-paci = qui la pace) e battezzarono “Isola delle Femmine” l’isolotto sul quale avevano dimorato per così tanto tempo le donne.
Un’altra testimonianza importante è quella rintracciabile in una lettera indirizzata a Traiano da Plinio il Giovane. Questi, secondo quanto riportato, avrebbe parlato dell’isola come di una residenza di bellissime fanciulle, disposte ad offrirsi in premio per la durata di una luna (cioè per un mese) ai giovani guerrieri che si sarebbero distinti in battaglia.
La storia più struggente e suggestiva sarebbe, secondo la tradizione, quella di Lucia, una fanciulla del paese, bellissima e innamorata di un suo giovane compaesano. In nome del suo amore, Lucia rifiutò le offerte amorose di un ricco signorotto il quale, sentendosi rifiutato, la fece rapire e chiudere sulla torre dell’isolotto, dove la giovane morì di fame e di dolore. Come spesso accade, leggenda e realtà si fondono e si confondono ed ecco che, ancora oggi, si narra che nei giorni di tempesta è possibile sentire il suo lamento disperato e malinconico fra le rovine della sua prigione.
Abbiamo citato alcune leggende non perché siamo convinti che possano raccontare pienamente una terra ma perché, che siano reali o meno, il sentimento di un “popolo” nasce anche attraverso le storie che consentono, a chiunque le ascolti o le legga, di sentirsi ancora di più parte di una dimensione identitaria che si apprezza solo con la lentezza della narrazione popolare, quel filo che collega generazioni e generazioni alla magia e alla bellezza della propria terra.
Pubblicato da fondazionevassallo